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Arte digitale, nuovi spazi mentali.

in Arte e cultura

Sempre più spesso si sente parlare di arte digitale, un complesso mondo fatto di elettronica, ma anche di scelte creative con vincoli e libertà completamente innovative per l’artista.

Si tratta di un settore vastissimo che abbraccia moltissimi ambiti, da quello editoriale a quello ingegneristico, da quello web a quello pubblicitario. Insomma una mare in parte navigato, ma ancora da esplorare. Il mio intento è di prestare una particolare attenzione all’ambito artistico ed in particolare nella sfera creativa in cui la tecnologia ci mette lo zampino.

Tutti sapranno che, ormai, attraverso i moderni software di foto ritocco è ora possibile, anche per i neofiti, modificare le caratteristiche di qualunque immagine come ad esempio: forma, colore, dimensione, clonare parti di immagini, creare moduli decorativi, scontornare e via dicendo. Oppure si possono creare dal niente: forme, colori e sfumature senza alcun limite. Gli errori si possono correggere, avere dei ripensamenti in corso d’opera con un solo click del mouse o della tavoletta grafica. In poche parole l’artista può inventare e creare un elaborato artistico, più o meno sofisticato, direttamente a monitor.

 

• Nell’esempio fotografico si vede lo stesso soggetto prima e dopo 2 diversi passaggi con l’applicazione di semplici filtri.

Davanti ad una tela è possibile fare la stessa cosa? Non solo è impossibile, ma si capovolge lo scenario e occorre una progettazione. Devo fare i disegni preliminari, ideare il soggetto, stabilire forme e colori, luce e composizione e, solo dopo, posso mettere mano ai pennelli. Qui non sono ammessi ripensamenti in corso o, se proprio voglio fare dei cambiamenti, devo rifare parti dell’opera con relativo aumento del tempo, dei materiali e del lavoro in generale.

Quando Giotto con un pezzo di carbone disegnava su una pietra era creativo e lo sarebbe anche oggi con un mouse in mano o davanti ad una LIM. Anche Giorgione creava l’opera durante la lavorazione, in taluni casi non si poneva nemmeno il problema della progettazione. A questo punto entra in gioco la “capacità creativa”, ovvero oltre la pura capacità di copiare o riprodurre il vero, ma anche la capacità di metterci dentro i sentimenti, di comunicare cose interessanti e intriganti, di creare immagini suggestive e nuove e così via.

Osserviamo con una lente di ingrandimento l’artista.
Quando un artista è alle prese con un ritratto da eseguire fedelmente deve innanzitutto avere un reportage fotografico della persona da ritrarre o, perlomeno, averla difronte. Poi deve conoscere l’anatomia per realizzare un volto senza errori o deformazioni. Infine deve conoscere i materiali ed usarli adeguatamente. Il disegno può essere facilitato da un proiettore, ma resta l’impegno del colore e delle sfumature.

Questo è un caso in cui la creatività centra poco, perché il lavoro è solo esecutivo. Tutti possono imparare a dipingere ed eseguire un virtuosismo di copiatura anche iperrealista.

Se invece l’artista, il vero artista, nel ritratto vuole metterci dei sentimenti o un messaggio profondo la faccenda è completamente diversa. Il progetto, mentale o pratico che sia, originale e non banale, è d’obbligo. Occorre necessariamente processare il lavoro prima di mettere mano agli attrezzi del mestiere. Può anche avvenire un colpo di genio che fa pensare e progettare l’opera in una frazione di secondo e che poi l’artista esegue, ma non è mai contemporaneamente come a volte potrebbe sembrare, perché il rischio di banalizzare aumenta notevolmente. Persino Jackson Pollock con i suoi “schizzi” di vernice non ha mai banalizzato le sue opere che appaiono illusoriamente improvvisate, ma sono pensate di nascosto agli sguardi indiscreti e, successivamente (forse una frazione di secondo dopo), create con impeto e suggestione comunicativa.

Davanti ad un monitor le cose sono diverse?

Prendiamo di nuovo la lente d’ingrandimento. L’artista vuole creare una bella illustrazione e disegna l’opera con un editor di immagini tipo PhotoShop, Gimp eccetera. Colora alcune aree e poi da una guardata ai menù disponibili. Ecco comparire FILTRI. Qui un’ondata di possibilità di trasformazione delle forme e dei colori costella gli occhi dell’artista: texture, alterazione dei colori, effetto matita, effetto carboncino, effetto pittura ad olio, solarizzazione, cambio di tonalità e moltissimi altri effetti grafici combinabili anche fra di loro. L’illustrazione a questo punto viene stravolta, arricchita di innumerevoli particolari di ombre, puntini, stelline, asfalti, legni, cieli realistici, impronte di mani o di piedi o di zampe, erba frattale. Insomma il risultato diventa una splendida immagine suggestiva. Tutti possono imparare ad usare un editor di immagini e creare un virtuosismo di colori e figure in soli cinque minuti.

Ripeto il concetto anche per questo caso, se il vero artista vuole metterci dei sentimenti o un messaggio profondo, la faccenda si capovolge profondamente. Pertanto occorre anche qui necessariamente un progetto.

Ovviamente il progetto è qualcosa che non si improvvisa, occorrono anni di studio e non si può più dare del professionista a chi si alza la mattina e inizia a dipingere o a suonare uno strumento o a coprire cariche dirigenziali. Quando ciò avviene la qualità delle cose cade orribilmente.

Metto da parte il mercato dell’arte con le sue peculiarità che, per il mio modo di vedere, separo dalla storia dell’arte. Forse ne parlerò in un altro articolo. Mi pongo adesso davanti ai bellissimi FILTRI di Photoshop o Gimp o chissa che altro software. Questi li definisco strumenti e non una forma d’arte.

Succede spesso infatti che, davanti ad un’opera digitale, chi non conosce una procedura di filtraggio di un’immagine pensa subito che il risultato sia valido e che l’artista sia in gamba. No, l’artista conosce solo uno strumento in più, ma ha usato quello strumento per comunicare qualcosa? Di fatto se altri artisti usano il medesimo filtro è come se tutti comunicassero la stessa cosa.

Faccio un esempio banale. Prendo la foto di una laguna e io, osservatore, ho una determinata sensazione. Se aggiungo alla laguna un effetto nebbia io, osservatore, ho tutt’altra sensazione. Pertanto attribuisco all’artista una certa bravura nel dare una sensazione. Quante altre persone, non necessariamente artiste, possono applicare l’effetto nebbia ad una foto? Troppe. Allora la creatività e la bravura dove sono? Forse nel cercare filtri nuovi e poco conosciuti? O nel momento della decisione di usare un filtro anziché un altro? La capacità di comunicare dovrebbe, dico dovrebbe, risiedere in un altro pianeta mentale, quello dello stupore, del messaggio profondo delle cose pensate e ripensate, corrette, sfrondate, strutturate e in una parola: sofferte. L’osservatore attento se ne accorge immediatamente se un’immagine ha il suo background oppure no.

Nell’esempio banale che facevo prima, la sola nebbia aggiunge un’atmosfera, ma non comunica un bel niente, forse un po’ di mistero. Che ci faccio di un’immagine con il solo mistero dentro? Nella società contemporanea siamo fin troppo pieni di misteri, allora se in quella nebbia aggiungo un’ombra indefinita, induco l’osservatore ad un pensiero in più, poi devo decidere se l’ombra deve essere nera, bianca o di qualche altro colore così la faccenda cambia ancora. Poi devo decidere se l’ombra è in movimento o è statica e le cose cambiano ancora. Poi devo decidere se l’ombra deve comparire al centro dell’immagine o sul margine. Potrei continuare per molto ancora fino a quando il mio lavoro di progetto non è esausto ed esaustivo al fine di dare più profondità possibile alla mia opera.

L’originalità viene meno nel momento in cui viaggio da un filtro all’altro esattamente come qualche altro milione di utenti. Peggio ancora se mi affido ai soli filtri come unica forma creativa che, per quanto gradevoli possano essere, non attraversano mai il “filtro” della mente. Di fatto si confonde l’osservatore che non capisce quanto lavoro umano e quanto lavoro macchina ci sia dietro un’opera.

Uno dei problemi che affliggono la creatività contemporanea è il relativismo che fa accettare e gratificare, a volte osannare, qualunque opera umana, anche se dilettantistica. Si parla tanto di spirito artistico, l’artista eccentrico o folle ad ogni costo. Ben vengano dibattiti e confronti su questi livelli, ma non dimentichiamo che la creatività ha bisogno di crescita e non solo di colpi di fortuna o colpi di mercato o colpi di lobby o addirittura colpi di frusta.

Mi piace pensare all’artista che cammina e quando si presenta il committente lo fa camminare con se.

Follia o finzione?

in Arte e cultura

autoritrattoNon sono certo io la persona adatta a formulare giudizi estetici di qualunque natura, ma non si possono trascurare alcuni stereotipi, archetipi ideologici e luoghi comuni nell’arte e nella vita in genere. Nella società contemporanea si assistono a comportamenti spesso estremi. Infatti la natura umana è attratta dall’inconsueto, dal confine fra realtà e immaginazione, da quella linea immaginaria che stabilisce differenze fra equilibrio e squilibrio, fra originale e banale, fra follia e ragione. Quanto più ci si avvicina a questo confine, tanto più si esercita un certo fascino sull’uomo. Ce lo insegnano i grandi filosofi e gli intellettuali, ma ci ammiccano anche le trasmissioni televisive dedicate al mistero, molti romanzi dedicati all’ignoto e così via. Anche nell’arte la follia attira ogni sorta di attenzioni. L’artista folle chi è? Probabilmente è colui che essendo arrivato molto vicino alla linea di “confine”, ha carpito nuove forme di comunicazione. L’artista folle si è affacciato, per così dire, al burrone e durante la vertigine vede cose che gli altri non vedono.

È molto difficile raggiungere questa linea di confine e il grande pubblico per questo motivo ne rimane “rapito”.
Mi chiedo oggi difronte a questo modo di essere “genio”, quanto di pertinente e di vero ci sia e quanto di palcoscenico invece venga costruito. Prendiamo un grande esempio: Van Gogh.
La sua follia estrema e autolesionista fa di lui il genio folle che quasi tutti amano, anche io in particolar modo. Non vi è dubbio sull’autenticità della sua follia, però in lui si individuano talvolta i termini di grandezza prima attraverso la sua follia e poi attraverso la sua arte. Se Van Gogh non avesse dipinto nulla, passerebbe ugualmente alla storia? Se invece avesse fatto l’artista e non fosse stato folle, sarebbe passato ugualmente alla storia? Io credo che avrebbe avuto una rilevante notorietà ma non così alta come lo è stata in effetti sino ad oggi. La sua meravigliosa innovazione pittorica, la questione della luce e il tracciato delle pennellate fanno di Van Gogh già un genio, prima ancora di ricoprire il ruolo di folle. Senza follia, la nostra società avrebbe compreso questo grande artista sino in fondo? O sarebbe rimasto un tema culturale per pochi addetti ai lavori?

Probabilmente quella carica di follia dà all’artista una connotazione più popolare, ovvero la nostra società si mostra più interessata e da più valore agli artisti quando sono “pazzi”. Il lettore mi perdoni, ma è doveroso un esempio a carattere autobiografico, un giorno un mio caro amico mi presentò un suo parente e gli disse che io ero una artista geniale (io non ci credo e mi scuso ancora con il lettore per questa auto-referenza gratuita), il punto però è che questa persona, fra le tante cose, disse che era meravigliato, si aspettava una persona trasandata, piena di colore o scontrosa come tutti i geni della pittura. Potete immaginare la mia espressione, ma questo discorso ignorante ha un retroscena piuttosto significativo.

la_stanzaL’opinione pubblica si è creata lo stereotipo dell’artista pazzo, un binomio imprescindibile e forse inseparabile. L’artista se non è pazzo, o perlomeno stravagante, non è un artista e, dato che gli stereotipi sono duri a morire, ad un certo punto anche all’artista capace e molto bravo, gli viene voglia di indossare una maschera di “finto pazzo” per acquisire punti in graduatoria. Come fa? In molti modi. Comincia a fare discorsi strampalati, si interessa all’esoterico, si veste in modo appariscente, diventa alcolista, picchia un cameriere, fonda un gruppo anarchico su Facebook e così via all’infinito. Tutto ciò però rimane solo una maschera, un ruolo, un soggetto che richiede impegno, tempo e macchinazioni cerebrali, facendo trascurare la sostanza.

La capacità dell’uomo di mentire agli altri e a se stesso lo trasforma in cose o persone che non è. Un’ipocrisia senza fine.
Le conseguenze di questa finzione sono notevoli, non tanto per l’incolumità personale o degli altri, quanto per il fatto che l’artista, ormai confuso, non crea più cose interessanti e intellettualmente valide, ma solo segni schizofrenici, pseudo visioni fantastiche e allucinazioni statiche. Secondo la metafora del burrone, è come se l’artista stoltamente crede di affacciarsi al burrone, ma quella maschera non è altro che un ballo isterico che tiene la persona inchiodata in pianura, molto distante dal burrone.

Questo tipo di opere a volte fanno mercato e sono prese d’assalto dai mercanti d’arte e critici di ogni calibro. Si tratta in realtà di un mercato senza valore, una presa in giro per impreparati, solo un commercio che ha come fine unico e ultimo l’investimento.
Voglio comunque puntualizzare che esiste fortunatamente un altro tipo di mercato, ovvero quello che si occupa con serietà di arte nella sua forma più autentica. Non è il mio scopo qui di fare un articolo sul mercato dell’arte.
La mia attenzione è rivolta al carattere dell’artista, si pensi ad esempio ai tanti artisti incompresi che, pur essendo molto capaci, restano nell’ombra perché la propria capacità manageriale è inesistente, oppure mancano le conoscenze giuste in questo o quell’ambiente. Internet per fortuna ha dato un po di respiro con le sue vetrine.
Allora occorre essere per forza “pazzi” per farsi notare? Se si è in tanti come si emerge? Giochiamo tutti a fare i pazzi? Andiamo ai talk show? Paghiamo una emittente televisiva per farci intervistare? Va a finire che se ho molti soldi posso investire e farmi conoscere, altrimenti resto sconosciuto.

In definitiva gli sforzi dell’artista contemporaneo si devono quasi obbligatoriamente incanalare nel marketing di se stessi, è la società che lo chiede.
Come diceva una nota canzone di Vasco Rossi: “…serve un complice…”, ma io aggiungo: un giusto complice, chè è già un’impresa ardua.
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Le foto dell’articolo, in ordine dall’alto:

  1. Autoritratto con cappello di paglia, 1887, 40,5 X 32,5 cm, Parigi, Amsterdam: Van Gogh Museum.
  2. Vincent Van Gogh, La stanza di Vincent ad Arles (1888), olio su tela, cm 72×90, Amsterdam, Van Gogh Museum.

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